di Francesca Cecchini
Uno spettacolo che è un percorso itinerante guidato dagli attori del Teatro di Sacco
La pupa è uno stadio che si manifesta nel corso dello sviluppo postembrionale di alcuni insetti che va a precedere lo stadio di adulto: allo stesso modo, in occasione dei festeggiamenti per la Candidatura a “Perugia finalista Capitale Europea della Cultura”, domenica 30 marzo, con “Crisalide”, la cultura e l’arte si sono schiuse all’interno l’ex carcere maschile di Piazza Partigiani di Perugia, per offrire al pubblico un percorso itinerante a cura degli attori di Teatro di Sacco, diretti da Roberto Biselli, dei musicisti del Conservatorio “F. Morlacchi” e delle danzatrici della Undercover Dance Company, su coreografie di Manuela Giulietti. Un viaggio in un luogo “apart” dove trasudava dalle pareti il senso di oppressione e solitudine provato dai suoi vecchi abitanti: una tristezza piacevolmente attenuata dai musicisti che hanno accompagnato il viaggio, guidato dal cicerone Samuele Chiavoloni. Dopo il dolce invito delle melodie di “Grida ninfali”, si sono svolte alcune rappresentazioni, prima delle quali è stata “Pupa” durante cui Mauro Celaia ed Elisa Menchicchi hanno ricostruito uno stralcio di vita legata alla violenza inflitta sulle donne da carcerieri e medici nelle vecchie prigioni, prendendo spunto da “La morte e la fanciulla” di Dorfman. Dopo anni, vittima e carnefice si ritrovano ma in una situazione ribaltata in cui l’uomo è legato ad una sedia e la donna, armata, in posizione di vantaggio. Ne è uscito un giro di emozioni in cui il terrore della ex prigioniera si è riversato su colui che, senza rispetto di lei e del suo “essere umano”, anni indietro aveva perpetrato brutalità con ferocia e freddezza quasi con un retrogusto di curiosità e soddisfazione. Stacco totale con un salto nella cappella con “Exuvia”: Roberto Biselli e Maurizio Modesti hanno proposto un momento del rapimento di Aldo Moro e dei suoi ultimi giorni di vita durante la prigionia ed il “processo popolare” organizzato dalle Brigate Rosse. La pièce è ruotata intorno a due lettere scritte da Moro politico, marito e padre. Quella rivolta alla famiglia ha avvicinato gli spettatori alla vicenda e all’uomo più che al politico. Ultime due interpretazioni sono spettate all’Undecover Dance Company con Letizia Cucchia, Paola Franceschini, Greta Genovesi, Costanza Lindi, Claudia Micheli per “Evaporazione” e Rinaldo Morosi, Daniele Tomassini e Chiara Verdecchia per “Metamorfosi”. Le danzatrici professioniste hanno dato vita ad uno scenario onirico in cui i movimenti rallentati, proprio come lo scorrere del tempo delle giornate vissute nel carcere, portavano le artiste ad una graduale “trasformazione” inconscia. Durante il viaggio, tra sogno e realtà, le due performers protagoniste si sono ritrovate per poi subire di nuovo una violenta separazione e riuscire infine a ricongiungersi all’esterno dello stabile, nell’unico spazio libero d’aria del carcere, dove hanno rivolto lo sguardo insieme verso libertà oltre il filo spinato. Una scelta d’amore psicologica fuoriuscita da questa trasformazione, lo sviluppo della crisalide, in cui ogni partecipante ha potuto rivivere quel “bisogno” quotidiano che più sente suo e nel quale ha potuto riconoscere qualcosa del proprio percorso di vita.
Aldo Moro, primo scontro di un bambino di 8 anni con la brutalità della cronaca
Nel 1978 avevo 8 anni e vivevo in una località marittima. Il mese di maggio era iniziato senza la solita baldanzosa fanfara di sole e mare. Non avevo ancora messo una sola volta il costume da bagno. La scuola arrancava verso la fine. Nell’aria c’era ancora la pioggia dei giorni precedenti e il cielo sembrava preparare la disperazione. Lunedì 8 maggio 1978, giorno di San Vittore, per la prima volta il mondo esterno, le cose che succedono nell’universo dei grandi, mi si scaraventò addosso. La mamma guardava la tele con gli occhi pieni di lacrime, asciugando una pentola con lo strofinaccio a righe. Anche io ero in subbuglio. Di questo Aldo Moro si parlava da settimane. Con quell’aspetto da cane buono, mi sembrava impossibile che qualcuno volesse fargli del male. A chi poteva nuocere, lui? Nel 1978, a otto anni, ho avuto il mio primo scontro con la brutalità della cronaca. Trentasei anni dopo, una rappresentazione del Teatro di Sacco che si è tenuta nel corso di una visita-spettacolo nell’ex-carcere maschile di Perugia, abbandonato nel 2007, mi ha risucchiato nella mia infanzia. Seguendo un attore col camice bianco lungo i corridoi bui dell’ex-carcere di Perugia, abbiamo percorso in silenzio il nostro tragitto a ritroso nell’utero della storia. Ci si è stretto un nodo in gola nel sentire, lontani come un’eco e poi sempre più vicini e assordanti, i titoli, gli strilli, i lamenti dei telegiornali e dei radiogiornali che concertavano uno sopra l’altro una litania parossistica che culmina nell’atroce silenzio di una stanza buia.
Si entra tutti insieme nell’ex-cappella dell’ex-carcere. Nella penombra si intravede uno straccio scuro sulla parete e una figura immobile. Passi che schioccano come sassi si avvicinano, spalancano una finestra. La luce inonda il prigioniero. Dietro di lui un telo rosso sangue e quella scritta, con quella stella, che in molti abbiamo incisa nella memoria. Una faccia attonita, domande e lettere. E la lettera alla moglie: “Mia dolcissima Noretta”. Davanti ai miei occhi si svolge la rappresentazione di un dramma reale. Il respiro mi si è strozzato in gola. Siamo tutti di nuovo ragazzini. Molti dei presenti non erano ancora nati, ma l’emozione è identica per tutti. Un dolore infantile come quello che segue a una cattiveria senza motivo, un senso di disperazione speranzosa che ci fa desiderare che qualcuno dia retta a quelle lettere, che qualcuno ascolti la ragionevole pacata disperazione di quell’uomo. In quel carcere non c’è solo Aldo Moro: c’è l’Italia. Alla quale una raffica di mitra ha portato via i sogni.
di Marco Morello