Il Teatro Laboratorio Isola di Confine è un gruppo teatrale con sede in Umbria, formato da attori, musicisti e studiosi di teatro esperti nell’uso della maschera teatrale e della tecnica dell’improvvisazione, con particolare riferimento alla Commedia dell’Arte; la ricerca del gruppo si concentra sull’approfondimento delle tecniche dell’attore, sulla poesia come scrittura scenica, sulla musica e i canti popolari come linguaggio teatrale, sul teatro come valore formativo ed educativo.

di Alessandro Chiocchia

Isola di Confine è diretto da Valerio Apice (attore e regista) e Giulia Castellani (attrice ed educatrice teatrale), che hanno accettato di parlare con noi dei loro progetti passati, presenti e futuri.

Come e quando è nato Isola di Confine?

Nel 2007 il sindaco di San Venanzo Francesca Valentini (che da quest’anno partecipa al nostro laboratorio per adulti “Teatro e Persona”) accolse la nostra proposta di organizzare un incontro internazionale di teatro con artisti-amici che provenivano da diverse parti d’Europa e anche dal Sud America e volevano aiutarci a dialogare con il territorio che avevamo scelto come nuova casa. Quell’inizio ha marcato il nostro cammino fino ad oggi e i luoghi che avevamo “abitato” con le nostre performance nel giugno di nove anni fa – San Venanzo, Marsciano, Monte Castello di Vibio – sono diventate le nostre comunità di riferimento.

Le attività di Isola di Confine si svolgono a livello sia locale sia nazionale, e nascono tutte da una concezione del teatro come strumento di relazione e spazio di incontro e di confronto tra esseri umani simili e diversi. Attraverso quali esperienze avete maturato questo modo di intendere il teatro?

Giulia: Ho incontrato i grandi Maestri del Teatro prima di tutto attraverso lo studio. Sono laureata al DAMS dell’Università di “Roma Tre” e sono Dottore di ricerca in discipline dello spettacolo. Negli anni lo studio si è intrecciato alla pratica. Nel giugno 2004 ho svolto uno stage organizzato dall’Università presso il Teatro Proskenion, in Calabria, per una sessione del Teatro Eurasiano diretto da Eugenio Barba. In quell’occasione ho conosciuto Valerio.

Valerio: La mia esperienza in Calabria, dove sono arrivato nel 1998 per un incontro con Eugenio Barba – l’Università del Teatro Eurasiano – ha segnato il mio apprendistato. Ho seguito Claudio La Camera e il Teatro Proskenion come un “monaco” addossato al deserto. La Calabria è terra di mare e sole ma noi teatranti, quel mare, neanche lo sfioravamo; cercavamo di cambiare noi stessi, stabilendo il nostro centro nel ritmo del gruppo che avevamo scelto ed evitando che il tempo dei prepotenti ci soffocasse. Non recitavamo per un pubblico ma spesso per quel mare che non riuscivamo a toccare. Come dice Grotowski, “quando sei in crisi ritorna al primo giorno”. Io spesso ritorno alla “mia” Calabria che mi ha insegnato a guardare negli occhi le persone e anche il mio spettatore. Il mio “punto fisso” è l’umano.

Dal 2009 organizzate e portate avanti in molti paesi umbri una serie di laboratori teatrali per bambini, ragazzi, adulti e anziani, grazie ai quali avete incontrato tantissime persone di ogni età (solo nell’anno scolastico appena concluso avete lavorato in ben sedici tra scuole dell’infanzia e scuole primarie). Che cosa significa per voi insegnare teatro?

Per noi insegnare è stare insieme ai bambini e condividere, prima di tutto, il loro ritmo. Potremmo portarti tanti esempi di come nei nostri laboratori con i bambini della scuola dell’infanzia e della scuola primaria, ritroviamo quella “seconda natura” in azione che i nostri maestri hanno teorizzato e narrato in libri di grande sapienza artigianale. Pensiamo a Copeau, a Mejerchol’d, a Grotowski, ma anche ai Pinocchi di Carmelo Bene. È nei dettagli, in una maniera particolare di utilizzare la voce, nel disequilibrio del corpo, nel gestire le relazioni con i compagni in uno spazio e in un tempo ben definiti, che i Grandi Maestri ci fanno incontrare i Piccoli Attori. Il lavoro, a stretto contatto e sotto l’occhio vigile del corpo insegnanti, ci sta dando grandi soddisfazioni.

Sempre nel 2009 avete dato vita al Festival Internazionale di Teatro “Finestre”, che tra le altre cose porta ogni anno in Umbria il regista Eugenio Barba, uno dei Grandi Maestri del teatro contemporaneo, fondatore dell’Odin Teatret, tra le realtà più importanti a livello mondiale del cosiddetto teatro di ricerca. Come è nata la vostra amicizia con Barba e l’Odin?

Valerio: Nel 1997, nella scuola di teatro che frequentavo a Napoli, avevo letto un libro di Barba Teatro. Mestiere. Solitudine. Rivolta. Volevo incontrarlo e ho saputo dell’incontro a Scilla che lo stesso Barba teneva dal 1995. In quella occasione l’ho conosciuto ed è iniziata una rispettosa amicizia e una collaborazione. Nel 2000, Barba ha dato la possibilità a me e a Claudio La Camera, di organizzare un incontro di teatro di circa un mese presso il l’Odin Teatret a Holstebro. La lunga permanenza in quel “tempio del teatro” ci ha permesso di entrare in relazione con il senso profondo di una delle più grandi esperienze del teatro di ricerca, fatta anche di umanità e di lavoro quotidiano. Per me e Giulia è un grande orgoglio e una grande responsabilità aver accolto per otto anni consecutivi un maestro del teatro e fondatore dell’Odin Teatret che ha cercato la conquista della differenza.

A proposito dell’Odin Teatret, nel 2014 siete stati invitati in Danimarca – eravate uno dei due soli gruppi teatrali italiani presenti – ai festeggiamenti per il suo cinquantesimo compleanno, ai quali avete partecipato con una performance teatrale e musicale ideata e messa in scena insieme ai giovani musicisti della Junior Band di Spina (antico borgo della Media Valle del Tevere, ndr). Quanto è stata importante per voi questa esperienza?

Eugenio Barba e Julia Varley stavano organizzando quell’incontro dal 2011 e quando ci hanno invitato, abbiamo pensato a qualcosa di distante, quasi impossibile. Avevamo stretto amicizia con il maestro della Banda di San Venanzo e in diverse occasioni abbiamo presentato spettacoli di teatro e banda. Poi è stato lo stesso Barba a lanciarci la provocazione di una banda di Pulcinella. Quando c’è stato il momento di prendere una decisione, nel paese di San Venanzo c’è stata una grande crisi subito risolta trovando un compromesso: avremmo continuato a suonare e recitare insieme soltanto in Italia, la Danimarca era troppo lontana. Lavorando nelle scuole avevamo conosciuto il maestro della Junior Band di Spina che ci ha proposto di collaborare. Quando abbiamo portato la proposta a Spina, le famiglie dei ragazzi ci hanno mostrato una grande disponibilità. La cosa più difficile è stata quella di far indossare i vestiti di Pulcinella ai musicisti. Ma quando siamo arrivati in Danimarca, il mondo del teatro ci ha accolto con grande sorpresa. È stata un’esperienza molto importante, e anche un grande sforzo organizzativo. Alcune immagini si possono vedere nel film di Jacopo Quadri e Davide Barletti che presenteremo il 30 giugno per l’apertura del nostro Villaggio e anche nell’Archivio dell’Odin Teatret Film in un video-documentario a cura di Chiara Crupi.

Oltre a insegnare teatro e organizzare festival, scrivete e rappresentate spettacoli teatrali vostri. La vostra ultima produzione si intitola “Don Giovanni in soffitta”, di cosa si tratta?

Valerio: E’ stato mio padre il mio primo maestro nel fare spettacoli. Ricordo ancora quando a otto anni mi faceva muovere il “cannone” per illuminare gli attori della compagnia di Ciro Madonna, regista e drammaturgo di Castellammare di Stabia, la città dove sono cresciuto. Ed è stata mia madre che mi ha insegnato a far sorridere il corpo. Quando sono morti, due anni fa, non immaginavo di poter indossare la mia maschera per rappresentare qualcosa. Il dolore è stato immenso. Poi ho lasciato che quel “Don Giovanni” di mio padre e quella “Donna Elvira” di mia madre continuassero a litigare sulla scena. Ho “sfruttato” la mia esperienza ventennale di Pulcinella, ho conosciuto Enzo Bianchi e la comunità di Bose, ho rielaborato le tesi di Cesare Garboli sul Don Giovanni e ho provato a far “cantare” lo spettacolo, con Giulia che ha curato la drammaturgia e che è in scena con me. Oggi posso dire che uno spettacolo può vincere la morte. Ed è un segreto che vorrei condividere con lo spettatore, invitandolo nella soffitta di Sganarello-Pulcinella.

Il 30 giugno si terrà presso la Sala Eduardo De Filippo di Marsciano l’inaugurazione del vostro nuovo progetto “Il Villaggio del teatro – Per educare un bambino ci vuole un villaggio, per educare un villaggio ci vuole un bambino”. In cosa consiste?

Giulia: Si tratta di un progetto finanziato dal MIUR, vincitore del bando per la promozione del teatro in classe, che abbiamo presentato insieme alla Direzione didattica primo circolo di Marsciano. Da questo sta nascendo un’idea progettuale più ampia, che coinvolgerà il territorio dei comuni di Marsciano, di San Venanzo e di Monte Castello di Vibio, con attività soprattutto per bambini e giovani.

Valerio: Se penso alle esperienze di Giuliano Scabia che, con le sue Azioni teatrali nei primi anni settanta, ha dato vita al teatro dei ragazzi, al teatro a scuola, non posso pensare alla nostra esperienza come qualcosa di originale. Nella conferenza che Piergiorgio Giacché ha tenuto da noi il 14 giugno, ha affermato che è quasi un paradosso pensare all’esperienza del teatro nella scuola come qualcosa di finanziabile. Poi mi riallaccio al percorso di Marco Martinelli – che sarà da noi il 2 luglio per una conferenza-dialogo con Eugenio Barba – e dico che ciò che cerchiamo è di creare un ambiente dove poter pensare, prima di tutto, ad un Villaggio del Teatro della mente, dove agli altri è dato entrare in qualsiasi momento. Ma come ogni ricerca seria, ha bisogno di fondi, sostegno. E questo del MIUR è stata davvero una conferma a quello in cui abbiamo creduto da diversi anni e anche uno sprone a continuare.