Nella sua Eneide il sommo Virgilio cantava già di questa terra che al tempo portava il nome di Sulmo. Ogni ricordo derivato dall’antico insediamento romano ha preso vita grazie al sangue di una nobile famiglia che, caricandosi quella terra “sulle spalle”, ha regalato fortuna e gloria al Lazio pontino
di Daniele Pandolfi
Tutto poggia sulle fondamenta di un castello, edificato nel Duecento dalla famiglia degli Annibaldi, ceduto poi ai Caetani i quali diedero il loro nome all’imponente costruzione. Come è risaputo, a quel tempo la Chiesa esercitava un forte potere decisionale e possedeva inimmaginabili somme di denaro per poter governare su popoli o regni. Così nacque la fortuna di due famiglie già di per sé molto ricche, Caetani e Borgia, che in periodi diversi, seppur incrociandosi dominarono su tutta la pianura pontina e non solo. Prima Bonifacio VIII (Benedetto Caetani), poi Alessandro VI (Borgia), consegnarono la chiave della città ai propri familiari. Una pratica in voga ancora oggi tra i potenti che si appropriano di ciò che non gli appartiene. Ma questa è un’altra triste questione. Questo capitolo di storia è come nascosto da un velo, non traspare nemmeno da vicino. Sembra essere incastonato in un passato che non ha accettato di fare quel passo avanti nel baratro, che è il futuro. I Caetani diedero molta importanza al carattere militare, trasformando il castello in una vera e propria fortificazione. I Borgia pensarono più alla costruzione della Cittadella. Ebbero i loro tornaconti, come era naturale anche al tempo; di certo non furono santi, ma i santi non vincono le guerre. Un breve passaggio di Napoleone, molto più in là, spezzò quell’egida che durava oramai da tempo immemore. I Caetani rimisero di nuovo le mani sulla fortezza verso il finire del XIX secolo per poi donare tutto ad una Fondazione nelle mani di una donna: Lelia Caetani. Dal belvedere di Sermoneta, con gli occhi sulla pianura pontina immagino la piccola Lelia che come la Leila di Guerre Stellari cerca di mettere la parola fine ad un ciclo portato al massimo apice dal padre Roffredo, al quale ha intitolato la Fondazione. La cura che metteva in ogni suo gesto ha fatto arrivare fino a noi intatta, una meraviglia come il Giardino di Ninfa, fuori dal borgo e sviluppato lungo il fiume omonimo. Non meno importante è il Giardino degli Aranci: dapprima chiamato pomerio e destinato all’esercito come via di fuga, poi dedicato alla coltivazione di agrumi che inebriano l’aria e fanno venir voglia di danzar immersi in un verde paradisiaco. Un verde che si assapora, che entra nelle narici e colora gli occhi anche se si è circondati da mura medievali. Il Medioevo è stato sempre descritto come un periodo oscuro della storia dell’essere umano. Eppure, come può averci donato tali meraviglie?