di Francesca Cecchini  

“Ciro Masella, accompagnato da Marco Brinzi, porta in scena un notevole testo di Stefano Massini incentrato sui dubbi e le incertezze dell’uomo di ieri e di oggi”

E’ andato in scena lo scorso 1 marzo, alla Sala Cutu di Perugia, nell’ambito della rassegna Indizi a cura di Teatro di Sacco, e ancora mercoledì 4 marzo, presso l’Officina Giovani di Prato, “Gioco di specchi”, duello teatrale tra Don Chisciotte e il fedele Sancho Panza. Sul palco, Ciro Masella e Marco Brinzi in un “io” che si rapporta con il proprio alter ego. Una serie di battute recitate con una tempistica veloce, a tratti “scattante”, ci regala un incastro perfetto che induce lo spettatore a ritrovarsi assorto nel proprio monologo interiore personale senza però mai perder di vista la narrazione. A fine spettacolo ne parliamo con i due protagonisti.

Sul palco, un uomo che dubita, che ha perso la sua identità e che non sa chi è realmente. Il segreto, secondo lei, Masella, che ne è anche il regista, sta proprio nello spezzare quello che potrebbe essere un monologo in un dialogo a due voci?

“Gioco di specchi”, che all’apparenza mette in scena un vero e proprio duello fra due personaggi differenti e complementari come Don Chisciotte e Sancho Panza, col ribaltamento di ruoli che avviene a metà spettacolo, per cui ciascuno scopre d’essere, forse, l’altro, e il coup de theatre finale che suggerisce allo spettatore che i due personaggi potrebbero essere, forse, le due parti opposte e complementari che si agitano nella mente e nella fantasia dell’autore, Cervantes, è anche la rappresentazione del dialogo interiore di un io sdoppiato: chi di noi non si è trovato, e non si trova quasi quotidianamente, a dialogare con “l’altro sé”, che ci contraddice o ci rimbrotta, che ci contesta le scelte e gli atteggiamenti, che ha il coraggio di dire ed essere ciò che noi non riusciamo a dire e ad essere? Questo dialogo continuo con l’altra parte di noi ci permette di dubitare, di osservare le cose da un altro punto di vista, di osare; e ci completa. Così come Don Chisciotte non potrebbe vivere senza il suo fido scudiero, forse nessuno di noi può vivere, o vivere bene, senza ascoltare l’altro sé. In un “gioco di specchi” in cui i ruoli spesso si ribaltano, o si sintetizzano; di continuo, in divenire, come è spempre nella vita. Ma non è solo questo. Questo testo è un gioco di specchi, appunto, di rimandi, di punti di vista.

Il mulino a vento di questo Don Chisciotte è la paura. Sul palco il filo conduttore sembra essere l’incubo della morte ma, secondo noi, rappresenta anche il timore dell’uomo moderno di non riuscire ad identificarsi in un ruolo preciso nella società. Insicurezza, camminare in bilico su un filo tra sogno e realtà in un mondo in cui sembra non esistano certezze. Perché l’uomo oggi è in continua ricerca e non riesce a fermarsi soddisfatto di ciò che ha? E come questa insicurezza si rispecchia nell’ambiente teatrale?

Forse uno dei motivi di questa corsa sfrenata è proprio la “paura”: di rimanere indietro, di non far parte di questa giostra che va a velocità supersonica e non può fermarsi per far scendere o salire nessuno, bisogna salirci al volo e rimanerci in equilibrio mentre continua vorticosamente a girare; la paura della solitudine, di non essere uguale agli altri, di non entrare a far parte della “zona vip”, quella dei privilegiati, quella di chi sta bene e se la gode. E poi la paura di essere realmente ciò che si è, con i limiti e le specificità di ciascuno. E infine la paura della morte, che siccome viene ignorata e cancellata, torna prepotentemente nei sogni, nell’inconscio, sottopelle. Solo la certezza della morte, sembra dire uno dei personaggi dello  spettacolo, ci permette di vivere.

Il teatro poi è sempre stato il luogo per eccellenza della precarietà, dell’incertezza. E ora che tutto si è fatto precario e incerto, il teatro respira con più forza e nitidezza il senso di crisi, la fine di qualcosa che è crollato e che ha lasciato solo macerie. Può, come sempre ha fatto, storicamente, da che è nato come esigenza prepotente dell’essere umano, farsi interprete ma anche reinventarsi grazie a questa crisi, generare nuova bellezza, nuovi significati. Cambiare! Ma cambiare davvero. Che è quello che viene chiesto all’occidente, che ha visto crollare le sue certezze e la sua ricchezza, i suoi sistemi di “valori” e il suo “modo di vivere”. Interpretare i segni e usarli per cambiare radicalmente rotta.

Quando si è più distratti la morte arriva e ci prende. Sembra quasi di non avere vie di scampo ma in realtà non è così. Il protagonista ha degli attimi di lucidità e razionalità e pare, a volte, prendere in mano la situazione trovando risposte alle proprie domande. Possiamo dunque sperare che dentro di noi si possa trovare la forza di combattere incertezze e paure?

Io credo che le incertezze e le paure, così come la morte, non vadano combattute ma, come dicevo prima, integrate, portate alla luce e chiamate col loro nome. Guardate in faccia, ammettendo la loro presenza imprescindibile. La luce c’è perché c’è il buio. Allora non si può ignorare il buio o cercare di cancellarlo facendo continuamente luce artificiale, finta. Seppellire ciò che c’è, che fa parte di noi, può rendere quel che abbiamo sepolto più pericoloso, più grande, ingigantirlo a dismisura fino a farlo diventare davvero mostruoso. Alla fine dello spettacolo, i due personaggi fanno pace con il melograno, con la possibilità di quell’alba che potrebbe significare la morte, e nel sentire la finitezza della loro esistenza, cominciano forse a godersi davvero ogni attimo.

“Si vive nei sogni degli altri”. Ancora, “Appena lui si sveglia, noi spariamo”. Viviamo riflessi nei sogni di chi?

Ad un certo punto, uno dei due personaggi dice: “Rassegnati. Siamo solo il sogno di qualcuno. Qualcuno che non conosciamo. Resistiamo, finché dura il sogno. Appena lui si sveglia, noi svaniamo”. Questo “qualcuno” non è un altro essere umano, riassume forse per l’autore, ed anche per me, il concetto di Divino, di Sacro. Quel dio che ciascuno chiama in modo diverso, e che colloca in un “luogo” diverso. Per alcuni può essere il Dio cristiano, per altri qualcosa di molto più legato alla natura, più panteistico. Shakespeare faceva dire ad un suo personaggio che “siamo fatti della materia di cui sono fatti i sogni. E la nostra stessa vita è un sogno.” Sono cose che non vanno spiegate più di tanto. Hanno una loro forza intrinseca, immaginifica. E che però ciascuno di noi sente sottopelle, nella parte più intima e meno razionale di sé.

Leggiamo nelle note di regia: “Sospesi fra Beckett e due clown”… nella vita reale come affrontano Ciro Masella e Marco Brinzi il quotidiano? Drammatica comicità o comica tragicità?

(Ciro Masella) La vita è a corrente alternata, o drammaticamente comica o comicamente tragica. È importante non perdere mai nessuno dei due punti di vista, cercando il comico nelle situazioni più drammatiche e il dramma che spesso si cela in ciò che all’apparenza ci sembra comico, ridicolo.

(Marco Brinzi) Credo che nella vita, a differenza del teatro in cui si può scegliere cosa “rivivere”, le persone siano veramente sospese come dei clown-bambini. Ci sforziamo di capire, di fare, di darci una spiegazione continuamente, mentre la vita stessa è in perenne mutamento con attimi in cui la tragicità e la comicità coesistono con la stessa intensità. Forse l’unica cosa che possiamo permetterci di fare è stare in ascolto di ogni attimo. La cosa è molto zen… Impossibile forse nella pratica ma personalmente mi aiuta sapere che nell’attimo massimo in cui vivo un dolore c’è pure dentro ognuno di noi una speranza, una luce a cui possiamo affidarci.

Per chiudere, considerato che il vostro “corpo a corpo” ha avuto un grande successo di pubblico e critica, possiamo sperare di ritrovarvi in scena, spalla a spalla, pronti ad affrontare una nuova sfida, magari senza cavallo e spada?

(Ciro Masella) Questo è già il secondo spettacolo che io e Marco affrontiamo assieme, dopo la felicissima esperienza di “Muro/vita di NOF4 astronautico ingegnere minerario nel sistema mentale”, ed è la conferma di un legame, di un’intesa difficilissima da raggiungere in scena. Un’intesa che il pubblico sente, avverte fortemente, e che regala al nostro stare assieme in scena una forza e una tensione speciali. Ed è una cosa rara e preziosissima che va preservata e messa a frutto. È un piacere raro poter stare in scena con un compagno col quale c’è una così forte affinità. Quindi credo e spero che la cosa si ripeterà in futuro più e più volte, permettendoci di affrontare e indagare altri mondi e universi. Intanto continuiamo a portare in giro Don Chisciotte e Sancho Panza, in lungo e in largo per la penisola, isole comprese, col sogno di poterci scambiare presto i ruoli sera per sera, come era nell’intento di Massini quando mi ha consegnato questo bellissimo testo.

(Marco Brinzi) Il rapporto con Ciro per me è fraterno. Raro. È il secondo spettacolo in cui ho il piacere di essere diretto da lui. Mi sprona perennemente per migliorarci in scena. Un legame che si è consolidato nel tempo e che ha fruttato due spettacoli “magici”. Essendo un affinità teatrale unica mi auguro che il duo continui a crescere assieme, che si continui a giocare come stiamo facendo, proprio come quelle coppie leggendarie… vedi Don Chisciotte e Sancho.

Gioco di specchi di Stefano Massini, regia Ciro Masella, con Marco Brinzi e Ciro Masella, scena luci e costumi Silvia Avigo, suono Angelo Benedetti, una produzione Uthopia/tra Cielo e Terra

(foto di Ilaria Costanzo)