L’indagatore dell’incubo compie trenta anni dalla prima pubblicazione. Il fascino crescente di Dylan Dog arriva all’Horror Fest di Terni grazie a Fabrizio Accatino, uno degli sceneggiatori del team Bonelli, che ci racconta del passaggio storico da fumetto popolare ad icona di un’epoca che sembra essere intramontabile

di Francesca Cecchini

Nell’ambito delle celebrazioni dei trent’anni dalla prima uscita del fumetto cult Dylan Dog – era la fine del mese di settembre 1986 – l’Horror Festival di Terni ospita Fabrizio Accatino, uno degli sceneggiatori delle storie che vedono protagonista l’affascinate e ‘tenebroso’ Indagatore dell’Incubo. Un personaggio che, di generazione in generazione, continua a calamitare l’attenzione di una folta schiera di appassionati lettori, seppur non tutti amanti del brivido. Ammiratori che, attratti dalla filosofia di vita del detective londinese, riescono a leggere tra le righe delle sue avventure che – andando oltre la prima lettura della mera indagine – racchiudono in ogni episodio una visione, un pensiero e rimandi al cinema e alla letteratura sempre differenti.

“Chi non ha vissuto quella stagione – ci dice Accatino – non può capire cos’ha rappresentato Dylan Dog per la mia generazione. Un fumetto di grande impatto sociale per quegli anni. Sembrava che tutti lo leggessero, come se fosse la lettura più in, più trendy del momento. Poi la serie è stata sdoganata da Umberto Eco, grande semiologo italiano, che in qualche modo è riuscito a ‘decostruire’ il fenomeno Dylan Dog e a isolarne le caratteristiche linguistiche e narrative, davvero innovative. È stato un fenomeno che ha avuto il suo apice fintanto che Tiziano Sclavi è stato al timone della serie, nella quale ha infuso la sua passione, i suoi sentimenti e la sua fantasia. Donava al fumetto una tipica atmosfera da favola nera, caratteristica di scrittori come Buzzati o Rodari. Una sensibilità tipicamente padana (NdR Tiziano Sclavi è originario della zona di Pavia), caratteristica di un certo tipo di narrativa per ragazzi. Questa è stata sostanzialmente la formula che ha fatto decollare la serie.

Poi?

Ad un certo punto, quando Sclavi ha smesso di scrivere con continuità, la serie è passata di mano in mano tra vari sceneggiatori e, pur perdendo qualcosa che era caratteristico del suo creatore, ha permesso l’introduzione di visioni diverse. Una serie che è arrivata – direi brillantemente – fino ai nostri anni, riuscendo a trasformarsi da ’semplice’ fumetto a icona contemporanea.

Il suo primo approccio con questo fumetto?

Mi sono accostato a Dylan Dog con l’albo n. 43, Storia di nessuno. Una di quelle storie che restano per sempre. Mi ricordo di questo fumetto che passava di mano in mano durante le lezioni, sotto i banchi di scuola. Quando arrivò a me lo lessi, ne rimasi folgorato e decisi di comprarlo. Ho amato tantissimo quella storia e il n. 74, Il lungo addio. Un albo assoluto perché rappresenta un autentico delirio poetico, con cui Sclavi perde ogni contatto con il realismo. In quell’albo tutto diventa onirico, una sorta di incantesimo magico che si snoda tra le pagine, piene di visioni, filastrocche, canzoni. Mentre leggevo gli albi di quegli anni, ho realizzato che quell’incredibile ciclo di storie sarebbe stato per sempre ineguagliabile. Ancora oggi sono convinto che i primi cento numeri di Dylan Dog siano stati probabilmente il corpus fumettistico più bello, suggestivo, appassionante, poetico dell’intera storia del fumetto italiano. Leggendoli ho capito cosa avrei voluto fare da grande.

Chi è Dylan Dog?

È un personaggio anarchico, coerente da un punto di vista etico ma con qualche incoerenza caratteriale che lo rende particolarmente interessante. Ha una propria eleganza ‘shabby’ ma contemporaneamente è uno che ha un solo capo di abbigliamento nel suo armadio. Per sua formazione è portato a esaltare la libertà individuale, la lucidità di pensiero, lo scetticismo. Rispetto ad altri personaggi a fumetti ha un suo punto di vista personale fondamentale. Ma soprattutto, Dylan Dog è ironia. Questo è davvero il marchio di fabbrica del personaggio.

Che rapporto ha con le citazioni, da sempre presenti all’interno degli albi di Dylan Dog?

A me piace prendere la scena di un film (o di un libro) che non c’entra nulla con l’albo che sto scrivendo e piazzarla nella mia storia in un contesto completamente diverso, facendola funzionare lo stesso. Questo è un esercizio di ‘taglia e incolla’, una citazione che potremmo definire ‘letterale’: a volte riporto un dialogo intero proveniente da un’altra opera, integralmente, parola per parola. Una strizzata d’occhio al lettore ma anche una riflessione su come le stesse parole in un contesto diverso generino un senso diverso.

Esiste un solo film ufficiale (americano) di Dylan Dog. Anzi, uno e mezzo, considerando Dellamorte Dellamore con Rupert Everett. Perché Dylan Dog si è visto così poco al cinema?

Non esiste un vero film su Dylan Dog, essendo il protagonista di Dylan Dog: Dead of Night (uscito nel 2011) lontanissimo parente del personaggio di Sclavi. Agli inizi degli anni Novanta, quando ci fu il boom dell’Indagatore dell’Incubo, la Bonelli venne avvicinata da case di produzione americane che acquistarono i diritti del film, ma si trattò di un acquisto che consentiva loro di gestire il personaggio senza alcun controllo da parte della casa editrice. Potevano fare ciò che volevano con il personaggio, e così è stato. La storia del film ha pochissima attinenza con l’originale. La vicenda è ambientata a New Orleans e non a Londra, Dylan Dog è un robusto palestrato (Brandon Routh) che invece che vivere storie poetiche, esistenzialiste e malinconiche passa il tempo a sparare ‘a due mani’. Il maggiolino bianco è diventato nero per surreali problemi di diritti con il film Il maggiolino tutto matto. Quando il film uscì, la Bonelli fece scendere un gelo totale sull’argomento, ignorandolo per anni, come se non esistesse. Non esistono dichiarazioni ufficiali della casa editrice su quella pellicola. Ne Il prezzo della carne (NdR Dylan Dog numero 358, soggetto e sceneggiatura Fabrizio Accatino, disegni Roberto Rinaldi, copertina Angelo Stano) sono stato il primo a nominare ufficialmente il film in una pubblicazione Bonelli: ho immaginato che fosse uscito nelle sale anche nell’universo immaginario del fumetto e che un ragazzino riconoscesse Dylan Dog avendolo ‘visto al cinema’. Il ragazzino si mostra entusiasta di quel film ma Dylan lo gela: ‘secondo me era orrendo’. “Invece Dellamorte Dellamore (1994) – prosegue Accatino – era un gran bel film, tratto dall’omonimo romanzo di Sclavi. Francesco Dellamorte è una specie di precursore di Dylan Dog: ha la giacca nera, la camicia bianca con i polsini all’infuori, nel film ha anche il viso di Rupert Everett. Pur assomigliandogli moltissimo, però, non è Dylan Dog.

In base a tutto ciò non avremo mai, dunque, un film su Dylan Dog vero, bello, ufficiale?

Mentre veniva girato Dylan Dog: Dead of Night si vociferò di uno (o più) sequel, per i quali l’attore Brandon Routh firmò anche un contratto. Visto però che quando il film uscì nelle sale fu un discreto flop, non credo che ci saranno altre puntate della serie. Se vogliamo, ci sono i vari fan movie girati per passione da semplici lettori. Sono film rigorosamente non ufficiali, pensati per il web senza un’autorizzazione da parte della casa editrice che ne detiene i diritti. È un fenomeno su cui la Bonelli con grande eleganza chiude un occhio, per non frustrare la passione di tutti coloro che non si arrendono all’idea di non avere sul loro personaggio preferito un film degno di tal nome. Che a questo punto non arriverà mai. Gli anni Novanta sarebbero stati gli anni giusti per girarlo, perché c’era disponibile un Rupert Everett ancora identico a Dylan, ancora icona vivente del personaggio di Sclavi. Ma ormai sono passati molti anni – conclude sorridendo – e l’attore fisicamente è cambiato tantissimo”.