Al festival delle arti contemporanee di Todi va in scena un appuntamento intenso tra teatro e letteratura durante cui si affronteranno i retaggi culturali alla base della violenza e le cause profonde del femminicidio. A parlarci di come si sviluppa il libro da cui è tratta la pièce è la psicoterapeuta Lucia Magionami che nel testo si è occupata della parte più tecnica, dando un contributo alla comprensione della complessità della violenza nella relazione affettiva

di Francesca Cecchini

Non è colpa mia. Voci di uomini che uccidono le donne, questo il titolo del libro in uscita nei prossimi giorni per Morlacchi Editore, che sarà presentato sabato 2 settembre alla sala del Consiglio di Todi, nell’ambito del cartellone in programma per la trentunesima edizione del Todi Festival. Nel testo, ripreso e portato in scena in anteprima lo stesso giorno dalla Compagnia degli Gnomi, una prima parte raccoglie una serie di interviste condotte dalla scrittrice giornalista Vanna Ugolini e da Massimo Pici con Marco Lalli agli uomini che hanno ucciso la loro compagna. Una seconda vede svilupparsi un’analisi psicologica di tutti i meccanismi della violenza (volta a dare una chiara lettura al fenomeno del femminicidio) a cura della psicoterapeuta Lucia Magionami. Proprio alla psicoterapeuta chiediamo di spiegarci un tema tanto inconsueto e, per i più, nuovo.

 L’empatia di un lettore, crediamo, generalmente si sviluppi nei confronti di chi ha subito violenza, non di chi la genera. Non sempre probabilmente si è pronti ad accettare la voce del “carnefice” e ad ammettere che ci sia una “giustificazione” ad un atto di violenza, che chi la commette non debba solo essere punito, ma curato. Difficile immaginarsi – seppur accade – un “uomo maltrattante” che si ferma a riflettere sui propri comportamenti.

Questo testo cerca di illustrare la violenza delle relazioni di coppia nella sua complessità per contribuire alla conoscenza dei meccanismi che si trovano alla base delle relazioni di maltrattamento e dei casi di femminicidio. Le categorie giustificative perciò non possono essere accolte in questo tipo di analisi, (la descrizione delle dinamiche violente assunta come giustificazione dell’accaduto è un malinteso fuorviante) così come non possono essere adottate categorie pregiudiziali che tendano alla ‘mostrificazione’ dell’uomo maltrattante e del femminicida. Bisogna ricordare sempre che l’assassino è una persona come tante, non un “mostro”, per quanto sia socialmente rassicurante deumanizzare l’assassino per non agitare il sospetto che ciascuno e ciascuna, potenzialmente, possa essere capace di uccidere i propri simili. L’assassino inteso come alieno mostruoso rinchiuso dentro sembianze normali (“pareva una persona per bene”) è una comoda invenzione autoassolutoria che ci impedisce di analizzare a dovere la questione e aggredire il problema della violenza.

Tornando ai contenuti del libro, nella prima parte del testo viene affrontato il racconto del femminicidio compiuto da tre di questi uomini e il lettore si troverà proiettato, attraverso le parole usate, all’interno di meccanismi manipolatori. Questi saranno analizzati nella seconda parte del libro che renderà evidente un dato cruciale: non esistono giustificazioni alla violenza. Si comprenderà bene anche che gli autori di violenza non sono affatto persone malate ma sono personalità ingabbiate dentro un labirinto di difficoltà comportamentali, relazionali, incapacità di introspezione, di assunzione di responsabilità, di compassione e di autocoscienza. Perciò la lettura delle loro parole renderà facilmente comprensibile che la sanzione penale restrittiva non rappresenterà un deterrente sufficiente a scongiurare il ripetersi di comportamenti violenti futuri, obbiettivo questo essenziale da raggiungere per la collettività, prima della repressione. Leggendo quelle parole si comprenderà quanto sia vitale per tutti noi oltre che per l’assassino, operare una terapia psicologica che permetta di far entrare l’essere umano in contatto con quelle parti di sé disfunzionali e distruttive, strutturando nuove prospettive di apertura e di crescita personale che vincano sulle dinamiche comportamentali forgiate su modelli di sopraffazione, di odio e vendetta. Si sta parlando di una strada lunga, tortuosa, dai risultati non assicurati che va però intrapresa con coraggio e pazienza. Non a caso si noterà come in questi tre casi, i protagonisti non si fermano ad analizzare le loro azioni ma continuano ad attribuire la colpa del femminicidio a fattori estranei, di cui essi sarebbero perfino vittime inconsapevoli. L’acquisizione di coscienza è una via scivolosa per tutti. L’uscita esiste, perciò stiamo qui a parlare. Sempre più frequentemente incontriamo uomini che cominciano a chiedere aiuto, sentendo che qualcosa non va in loro e nella loro relazione affettiva. Credono di poter migliorare e si mettono in discussione. Parliamo di piccoli numeri in confronto a realtà più grandi, ma esistono e un piccolo passo di consapevolezza è cominciato.

Ci può spiegare come si sviluppa il libro?

La premessa del testo è affidata alla scrittrice di gialli Gabriela Genisi ideatrice del personaggio Lolita Lobosco. Le due presentazioni vengono da Cristiana Mangani, giornalista e Claudia Fulvi, psicologa-psicoterapeuta e portano il contributo di due donne impegnate in ambiti diversi ma molto partecipi. Sì, questo libro è costituito di sole voci femminili, succede. Il libro si compone di due parti. Nella prima Vanna Ugolini, scrittrice e giornalista, riporta le interviste raccolte in carcere da tre uomini che hanno ucciso la loro compagna. In questa parte del testo il lettore si troverà coinvolto in una narrazione emotivamente molto coinvolgente. In essa affiorano tanto l’autorappresentazione degli intervistati quanto il coacervo di elementi che gli individui tentano di comporre ad uso dell’intervistatrice con la coscienza che un giorno saranno letti fuori dalle mura. La seconda parte, più tecnica, è il mio contributo alla comprensione della complessità della violenza nella relazione affettiva. In essa sono evidenziati gli svariati volti del fenomeno per gettare luce anche su aspetti spesso trascurati perfino dai professionisti del settore. Si ritrova in questa parte la spiegazione del termine “raptus” e il motivo per cui questo non debba essere mai associato alla parola femminicidio. Le morti per mano di chi dice di amare la propria compagna non sono mai dovute a un atto momentaneo fuori controllo sorta dal nulla, ma arrivano al culmine di un’escalation di maltrattamenti. Vengono spiegate le diverse teorie della violenza intrafamiliare e l’analisi dei contesti, degli autori  e delle vittime di violenza.

Qual è la chiave di lettura che lei, in qualità di terapeuta, offre al lettore? 

Il lavoro mira ad indagare il fenomeno della violenza nelle relazioni affettive nel modo più completo possibile affinché ciascuno possa affinare le proprie categorie interpretative. Solo così si potrà evitare di cadere nei pregiudizi e nell’accettazione della violenza, come prassi di relazione nella coppia o perfino come caratteristica costitutiva dei sentimenti di attaccamento. La violenza nella coppia è dannosa, disfunzionale, deleteria, distruttiva, non so come dirlo ancora, ma è sopportata da troppe donne come naturale componente della relazione. E troppi uomini continuano a ritenersi tali proprio perché capaci di esercitare la violenza entro e fuori i confini della relazione affettiva. Queste assurdità, ripeto, del tutto umane e per nulla mostruose, sono il fardello che portiamo addosso collettivamente. La violenza, come risoluzione delle controversie, come sfogo di frustrazioni maturate altrove, come affermazione sociale di sé, come manifestazione di personalità, è ancora troppo radicata nelle nostre società. È fondamentale riconoscere la violenza in ognuno di noi per poterla poi ravvisare negli altri. Tanto più per gli operatori del settore. Lo psicoterapeuta più di tutti deve dotarsi di strumenti interpretativi che rifuggano la semplificazione riduttiva per offrire una lettura chiara e una via di uscita all’autore di violenza che potrà così riconoscerla, nominarla per giungere ad assumersi le proprie responsabilità sostituendo i comportamenti attraverso modalità non violente. Questo libro parla a lui e alla sua vittima perché la violenza si fermi prima dell’irreparabile, perché autore di maltrattamenti e vittima trovino altre modalità di relazione e in esse nuovi orizzonti di senso.

E qual è, nel caso del libro, la causa scatenante principale che emerge?

Una risposta diretta ed esaustiva a questa domanda semplicemente non esiste. Indirizzarsi alla ricerca di una o alcune numerabili cause scatenanti, generalizzabili, è un errore di metodo. L’individuo si forma all’interno di una cultura di cui è portatore e autore, mentre la sua storia personale, unica ed irripetibile si costruisce di giorno in giorno su traumi subiti, acquisizioni culturali, deprivazioni, possibilità incontrate, conquiste e rinunce, competenze di ogni sorta comprese quelle affettive/relazionali di cui non ci occupiamo abbastanza, abilità tecniche nelle quali invece troppo spesso crediamo risolversi la completezza umana. Insomma, l’universo di sollecitazioni che investe la persona umana è infinito. Così i costrutti mentali e le reazioni emotive si fondano su questa infinità di elementi. Come individuare dunque poche cause scatenanti la violenza? Possiamo però, individuare il panorama di competenza relazionale degli individui che sono ingabbiati nei cicli di violenza e nei rapporti disfunzionali e distruttivi. Attraverso il tratteggio dei modelli comportamentali violenti è possibile descrivere dinamiche, non cause definitive. Ciò che di definitivo si può offrire a questa domanda è che una causa giustificativa alla violenza non c’è. Lo ripeto, non c’è. In qualunque caso, nelle relazioni di coppia l’esercizio della violenza è una scelta. Rifiutare questa scelta è liberatorio in primis per il violento.

Quali sono i campanelli di allarme che una donna dovrebbe riconoscere?

Gli indicatori di violenza sono interpretati erroneamente dalle vittime come atteggiamenti d’interesse e attenzione del partner. Dai colloqui con le vittime, infatti, emerge la difficoltà e l’incredulità di riconoscersi tali, proprio perché gli atti di violenza subita sono meno accentuati e culturalmente assunti come consuetudine nella relazionale passionale. All’inizio della relazione l’uomo non si mostra subito l’abusante che poi diventerà nel breve tempo ma mostrerà molte, troppe, attenzioni che vengono scambiate per moti d’amore intenso e “vero”. Tra i segnali più comuni si osservano le dimostrazioni di gelosia, il controllo delle amicizie maschili e femminili della vittima, il controllo economico, l’ostilità verso i parenti della donna, verso i suoi impegni di lavoro. Questo mosaico di ingerenze e di condizionamenti progressivi mira a isolare la donna facendo in modo che ella smetta di lavorare e si dedichi totalmente all’uomo. Vi è poi il controllo asimmetrico del tempo. Il tempo del dominatore è sacro mentre quello della partner serve per accudire l’uomo e soddisfare i suoi bisogni e i suoi mutevoli desideri. Il tempo della vittima può essere rimodellato a piacimento dal maltrattante. Il tempo dell’oppressore è insindacabile. L’isolamento crescente spinge la donna in una ragnatela di solitudine. S’innalza inesorabilmente il muro invalicabile del dominio. Privata delle relazioni affettive, degli impegni, del proprio tempo, la vittima non può che dedicarsi all’unico protagonista della propria esistenza, il suo carceriere, per placarlo, per tentare illusoriamente di trasformarlo. Questa illusione sarà lo splendente lucchetto posto sulla porta della cella. Nelle fasi di cambiamento della relazione la donna si incolpa perfino dello scivolamento progressivo del compagno verso atti di violenza sempre più profondi. Cercherà di deresponsabilizzare l’uomo attribuendo a se stessa la colpa del degrado della relazione; cercherà addirittura fattori esterni come concause dello sfacelo (il lavoro, gli “altri” malevoli, la parentela incombente). In conclusione, i primi sintomi da considerare indicatori sono tutte le manifestazioni che mirano all’isolamento della donna. Ogni azione che richieda alla vittima la rinuncia a proprie frequentazioni, al compimento di azioni quotidiane, alla rinuncia della privacy, della propria autonomia, in nome del controllo. Ogni comportamento asimmetrico di controllo è indiscutibilmente imposizione di potere e contraddice il principio di parità e di condivisione. Bisogna considerare che una volta consumato il singolo atto impositivo asimmetrico, da parte del persecutore, da esso non si torna indietro. Da esso si può solo procedere in direzione di un aggravamento dei comportamenti di violenza. Perché l’oppressore non si ferma se non viene fermato. Fin dal primo momento.

E, accettando il concetto di inconsapevolezza da parte dell’uomo maltrattante, che diventi assassino o meno, quali i “sintomi” che lui stesso dovrebbe riconoscere?

L’inconsapevolezza del persecutore è francamente inaccettabile. Nessun persecutore è inconsapevole della convenienza che gli procura esserlo. Fatto salvo il violento con gravi problemi psichiatrici, l’uomo che esercita violenza sulla compagna può essere incapace di descrivere i moti d’animo che lo inducono a praticare la violenza ma sa perfettamente cosa sta facendo e la finalità immediata dei suoi atti. L’attitudine a costruire giustificazioni interiori per l’esercizio della violenza è semplicemente il meccanismo conosciuto e descritto della neutralizzazione. Egli attribuisce la colpa della violenza esercitata alla condotta della vittima oppure a fattori esterni cui non sarebbe riuscito a far fronte, mai a se stesso. L’uomo che esercita violenza non mette mai in discussione il sentimento che prova per la compagna ma si sente vittima proprio di quel sentimento che lo incatenerebbe al punto da scatenarlo, vincendo la sua capacità di autocontrollo. Egli più semplicemente non riconosce le proprie emozioni, le proprie fragilità e i sentimenti di paura della donna. Non ha coltivato mai la sua intelligenza affettiva, è emozionalmente e culturalmente deprivato, si muove alla ricerca della soddisfazione di brutali esigenze di controllo sul reale, non riconosce il benessere della partner come valore da promuovere, reifica la partner così come tendenzialmente fa nei confronti delle esistenze che lo circondano. Il lungo esercizio della sopraffazione non rende inconsapevoli della violenza esercitata, bensì naturalizza il dominio come legge ineluttabile, alla quale adattarsi, attraverso la quale istituire i rapporti interpersonali e affettivi. Nel momento in cui adotta questa “legge universale” riconosciuta, il maltrattante compie un’operazione di semplificazione funzionale a lui utilissima. Ha fissato il suo panorama (brutale ma certo,e pertanto, rassicurante) di riferimento: imporre o subire. In base a questo costruisce giustificazioni e stimoli. Ogni pulsione soddisfatta attraverso l’assoggettamento della partner è giustificata dal paradigma adottato: il dominio o l’asservimento. Perciò picchiare, mordere, minacciare (anche con le armi), danneggiare oggetti affettivi della compagna, chiuderla in casa, stuprarla, rappresentano per lui momenti di affermazione sì personale, ma anche di certificazione della validità del paradigma della sopraffazione. Dunque anche la violenza psicologica come l’aggressione urlata, la critica continua e indiscutibile, la recriminazione, sono piani della stessa affermazione di potere e del suo mantenimento.

Quindi, specularmente alla risposta data in precedenza sui “sintomi” che una donna dovrebbe riconoscere, risponderò che il maltrattante, che inconsapevole non è mai, per prima cosa dovrà rompere il primo recinto dichiarando a se stesso, e possibilmente a qualcuno di intimamente vicino, la propria condizione di oppressore. La confessione a terzi è di per sé benefica. Lascia nudi e sconcertati ma offre già il profumo della libertà. Successivamente, ancora carico di tutte le sue sovrastrutture autoassolutorie e dei suoi labirinti emozionali, potrà affidarsi allo psicoterapeuta. Affidarsi, ripeto, consegnarsi riponendo fiducia nel lavoro del terapeuta (il buon senso e le buone parole dei saggi amici sono palliativi pericolosi), e così intraprendere un percorso terapeutico alla ricerca di nuovi cardini, nuove parole, nuovi moti dell’animo. La strada è faticosa ma il premio della ricostruzione su nuove basi della propria esistenza, sprecata nell’odio, nel risentimento e nell’esercizio del dominio, è grande.

Torniamo al lettore di cui parlavamo all’inizio. Crede che oggi, in una società insicura come la nostra, sia pronto ad immedesimarsi nel ruolo dell’uomo maltrattante? 

Per un uomo che agisce violenza, imbrigliato nel proprio personaggio, parlare delle proprie fragilità non è per nulla facile. Cercarle dentro di sé, cercare le parole per descriverle al terapeuta, riconoscerle parte della propria natura di uomo è faticoso, spiazzante, doloroso. Significa affrontare un percorso di crisi progressive e concatenate. Significa addentrarsi in mare aperto con la promessa di un porto sicuro in attesa del nostro approdo ma lontano e invisibile all’orizzonte. Si tratta di conoscere se stessi partendo dalle proprie conclamate contraddizioni. Gli uomini che si rivolgono al mio studio, infatti, arrivano spesso con richieste mascherate, non dichiarano subito il vero motivo della richiesta d’aiuto, non si sentono pronti, provano il timore di essere giudicati. Altri arrivano inviati dalla compagna, che è riuscita a fare breccia, e dichiarano di voler avviare un percorso psicologico per lei; poi però, già nelle prime fasi del lavoro terapeutico, emerge il nucleo bruciante del problema.

L’immedesimazione del lettore nell’uomo che esercita violenza nella relazione è importante. È un esercizio di compassione e di indagine introspettiva. Il lettore sarà forzato a parlare a se stesso. Le domande saranno inevitabili e impietose. È accaduto già ai nostri correttori di bozze che non ne sono usciti indenni. Le risposte che il lettore si darà potranno essere dilatorie, menzognere, autoassolventi, perché confessare di essere mosso dalle stesse pulsioni distruttive di un bruto o di un assassino è difficile, ma al lettore sta ora la palla di questa delicata partita. L’autocoscienza dobbiamo conquistarcela tutti nel segreto del nostro Io ma parlarne con gli altri è una buona pratica. Scoprire l’altro è l’inizio della nostra rivoluzione culturale contro la violenza di genere e la violenza in genere.

Secondo lei questa ossessione, se così la possiamo chiamare, che porta, a volte, chi ascolta o legge le notizie sulla violenza di genere a voler conoscere i minimi particolari, seppur macabri, in modo “compulsivo” da cosa nasce? Non è anche questa una “malattia”?  

Questa morbosità per le notizie di cronaca e soprattutto per le violenze intrafamiliari nasce dalla necessità di controllare ciò che accade vicino a noi, di affilare i nostri strumenti di giudizio, di non sentirci dominati dalla realtà nel suo svolgimento. Si tratta in buona parte di un meccanismo di lenimento della paura. Ciò che terrorizza è l’inconoscibilità di fatti occultati dalle mura domestiche. Turba maggiormente il pericolo occulto che non quello palese, al quale ci si può opporre o dal quale si può tentare di fuggire, è ovvio. Perciò il moto comune è quello di addentrarsi nel “caso” per sviscerarlo e renderlo narrabile a se stessi, agli altri e soprattutto con gli altri. La ricostruzione dei fatti non è solo un dovere di polizia giudiziaria ma in primis un bisogno psicosociale di controllo sull’imponderabile, di esorcizzazione. Ogni retroscena insondato rappresenta un pericolo non narrato, dunque non neutralizzato. L’inenarrabile è inaccettabile dalla nostra psiche.

Perciò non parlerei di malattia. Il fatto è che socialmente (anche grazie alla potenza degli strumenti di comunicazione informatici) si assiste all’ipertrofia informativa. La natura stessa delle fonti e la loro apparente autorevolezza, inducono nei lettori un attaccamento morboso alla notizia, attaccamento che polarizza l’attenzione su questo o su quel caso, richiedendo una dedizione spasmodica alla ricerca di varianti, di analisi giornalistiche, di controinformazioni, di letture sempre più articolate. Un’attenzione probabilmente superiore a quella dei professionisti dell’informazione, che finisce per essere invalidante. Questa bulimia informativa compulsiva accade nel caso di qualsiasi tematismo dell’informazione (a seconda degli orientamenti dei lettori) ma nel caso della cronaca nera, la sovrapposizione tra notizia allarmante e morbosità “da tastiera” può dirsi un problema vero e serio.