Umbra doc, nata e cresciuta a Todi, Livia Ferracchiati è una giovane drammaturga e regista teatrale che con i suoi lavori si sta affermando sempre di più nel teatro umbro e non solo. In questa intervista ci racconta la sua storia, il suo legame col teatro.
di Alessandro Chiocchia
Cominciamo dall’inizio. Quando e come si è avvicinata al teatro?
So che queste affermazioni hanno sempre un certo peso, però ho iniziato inventando sketch a casa per i miei. Invece a 12 anni ho deciso di realizzare un film, del quale non ricordo nulla, nemmeno il titolo. Ho scritto quella che credevo fosse una sceneggiatura, ho fatto un casting tra i miei amici e poi ho iniziato le prove. La videocamera era quella dei filmini delle vacanze, ma preferivo le prove. All’epoca non avevo nessuna cognizione del teatro, persino meno di adesso, anche se andavo a vedere gli spettacoli della stagione teatrale di Todi. Comunque il progetto fallì perché i genitori non portavano gli attori alle prove. La svolta fu la fondazione di una compagnia quando avevo 19 anni e amici patentati, in grado di recarsi alle prove da sé, fu una buona palestra da autodidatta.
Oltre alla scrittura e alla regia, ha mai preso in considerazione la recitazione?
No, mai. Fare una regia e, forse ancora di più, scrivere un testo, è un modo di mettersi in gioco in prima persona, mi voglio dare all’afflato poetico, è un modo di denudarsi. Non c’è bisogno di mettere in scena necessariamente qualcosa di autobiografico, quando lavori sinceramente ad un progetto mostri qualcosa di te agli altri, di più o meno velato. Il modo di farlo però è diverso se stai sul palco durante lo spettacolo o se ci stai quando si fanno le prove. Io sono una persona per certi versi molto controllata, con dei blocchi e dei disagi ai quali tengo e che mi impegno a non superare. L’attore, al di là della tecnica, deve operare un lavoro di costante liberazione fisica e mentale per lasciar fluire, ad arte, l’emotività e deve farlo di fronte ad un pubblico. Io faccio più o meno la stessa cosa, ma a casa.
La passione per il teatro l’ha portata a iscriversi alla prestigiosa scuola d’arte drammatica “Paolo Grassi” di Milano, presso la quale si è diplomata in regia nel 2014. Quanto è stato importante per la sua crescita artistica e professionale l’aver frequentato questa scuola?
I tre anni di accademia sono stati belli, sia per le persone incontrate sia perché ho potuto dedicarmi totalmente al teatro. Di sicuro, se sai sfruttarlo, quello che ti offre, nel bene e nel male, può fornirti gli strumenti per imparare a gestire quello che prima era solo “intuizione” e a capire come funziona il mondo del lavoro. Fino ai 25 anni non ho mai voluto entrare in accademia, poi ho provato l’ammissione in “Paolo Grassi” due volte, prendono 4 o 5 registi all’anno. La prima volta una degli insegnanti della commissione mi disse che non dovevo fare questo mestiere, l’anno dopo fu felice, insieme al resto della commissione, di ammettermi nella scuola. Siccome l’anno prima avevo i capelli lunghi e l’anno seguente corti, addussi il cambio di valutazione sulla mia persona ad un mancato riconoscimento.
Quali sono i drammaturghi e i registi che l’hanno influenzata maggiormente?
All’università leggevo con interesse Piscator, Brecht, Balázs, gli scritti della Malina e quelli di Artaud, ho anche fatto una tesi di laurea su Ascanio Celestini, perché al tempo mi appassionava il teatro di narrazione misto all’antropologia, forse mi fomentava un po’ il “teatro politico”. Ammiro molto Bob Wilson e Romeo Castellucci, insieme ad Antonio Latella, Alvis Hermanis e Emma Dante. Credo che Antonio Rezza sia un genio e ho cercato di vedere, anche in video, più lavori possibili dei Peeping Tom. Quando riesco seguo i Babilonia Teatri o vado a vedere l’ultimo spettacolo di Enzo Cosimi. Tra gli scrittori di teatro che ho letto di più c’è Wedekind, Pinter, Cechov e Williams. Credo però che le influenze più forti siano arrivate da un certo cinema: Woody Allen, Nanni Moretti, Massimo Troisi, François Truffaut, Quentin Tarantino, Billy Wilder e, a sorpresa, David Lynch.
L’anno scorso ha fondato insieme con altri giovani artisti e tecnici diplomati alla “Paolo Grassi” la compagnia teatrale The Baby Walk, che è nata intorno a un progetto molto interessante e di grande importanza che state portando avanti: una trilogia teatrale sulla transessualità che vuole raccontare l’esperienza della dicotomia tra corpo e mente in fatto di identità di genere. Il primo capitolo della trilogia, “Peter Pan guarda sotto le gonne”, che da qualche mese è in tournée nazionale (prossimamente sarà al Teatro Elfo Puccini di Milano), ha il grande merito di affrontare in modo garbato, toccante e non banale un argomento così complesso e attuale. Com’è nato il progetto di questa trilogia?
È nato dalla volontà di far teatro attraverso un tema sul quale ci sono continui fraintendimenti e notevoli imprecisioni. D’ignoranza si muore. La sfida sta nel trattare questi argomenti senza essere etichettati esclusivamente come uno spettacolo “LGBTQI”, lasciando il lato divulgativo nel pre e nel post-spettacolo. L’obiettivo è farlo vivere come uno spettacolo qualsiasi, la sfida superare le ghettizzazioni. “Peter Pan guarda sotto le gonne” racconta la pre-adolescenza di un bambino transgender, nato in un corpo di femmina e con identità di genere maschile, ma insieme a questo ci sono gli scontri con i genitori, tipici dell’età, i primi impulsi sessuali e i primi violenti innamoramenti. Insomma, si parla di un undicenne transgender, ma si parla anche di un undicenne e della crescita. Senza voler far paragoni con un autore che amo molto, quando si racconta de “Il giovane Holden” si parla delle angosce di un adolescente e non delle angosce di un adolescente cisgender. Sappiamo qual è la situazione socio-culturale odierna, ma questo non significa che sia giusto accettarla. È necessario lavorare per cambiare un immaginario errato e proteggere le persone da una pericolosa disinformazione. “Trilogia sulla transessualità”, è, per questa ragione, un sottotitolo che non mi ha mai entusiasmato, ma bisogna mediare tra l’aspirazione di mostrare la “normalità” di una storia in cui l’identità di genere è uno dei temi e la necessità di sensibilizzare sull’argomento.
Il secondo capitolo, “Stabat Mater”, è in lavorazione. Le va di darci qualche anticipazione?
In riferimento a quanto detto poco fa, “Stabat Mater”, più che puntare il focus esclusivamente sull’identità di genere, si concentrerà sulla riappropriazione di un’identità negata e racconterà i tentennamenti di un trentenne alla soglia, forse sorpassata, di un’età adulta che stenta ad accettare e i rigurgiti di un impulso sessuale quasi adolescenziale. Insomma, una storia tra preoccupazioni per il futuro, il lavoro, la propria attività sessuale e un corpo che non rispecchia chi si è.
Il 16 settembre debutterà in anteprima al Terni Festival il suo nuovo spettacolo, “Todi is a small town in the center of Italy”, prodotto da Teatro Stabile dell’Umbria e Terni Festival. Fin dal titolo si capisce che ha a che fare con l’Umbria, di cosa si tratta?
In realtà ha a che fare con l’Umbria molto meno di quel che sembri dal titolo, perché lo spettacolo parla della provincia italiana e interroga su quanto di noi stessi inibiamo o meno vivendo in un piccolo centro in cui tutti si conoscono, ancora più in generale racconta la difficoltà del percorso di liberazione verso noi stessi. Todi è la mia città e posso parlare di quest’esperienza, ma non credo sia diversa da altre realtà analoghe in giro per l’Italia. Da qui il titolo: Todi, posta al centro dell’Italia, diventa simbolo dell’Italia intera. Senza dubbio poi si parla di Todi nella sua specificità, si lavora sulla parlata dialettale e alcune scene sono rispettivamente ambientate nella storica gelateria Pianegiani, sulle scalette del Teatro Comunale, al pub tuderte “Olandese Volante” e in Piazza del Popolo. Luoghi che io conosco bene e verso i quali ho un legame molto forte, così come verso tutta la mia città. Da quanto so, dopo l’anteprima al Terni Festival, lo spettacolo sarà presentato ai tuderti, 110 dei quali sono stati coinvolti in prima persona nelle interviste video che, probabilmente, saranno inserite all’interno dello spettacolo. Uso l’avverbio “probabilmente” perché siamo ancora in fase di allestimento e ci sarà bisogno della seconda sessione di prove per verificare se questo sarà scenicamente possibile. Ritornando alla domanda sull’accademia, l’insegnamento più grande è stato quello di imparare a non affezionarsi alle idee e tenere solo quello che risulta organico al lavoro. C’è comunque l’intenzione di realizzare un documentario a se stante perché il materiale video è molto ricco.
Recentemente ha anche insegnato drammaturgia scenica presso il Centro Universitario Teatrale di Perugia. Che esperienza è stata per lei quella dell’insegnamento?
È stata un’esperienza utile per me, anche se io, com’è evidente, non sono un pedagogo. Lo stage è stato impostato su un lavoro molto concreto, basato su quello che è il mio modo di lavorare in alcuni progetti della compagnia, ossia attraverso l’improvvisazione guidata dell’attore al fine della stesura di un testo teatrale. Testo che poi può anche discostarsi molto dall’improvvisazione iniziale, ma che getta le sue basi in un materiale vivo. Quindi un lavoro basato molto sulla parola ma fatto anche di corpo e silenzi. Quello che mi interessa di più a livello drammaturgico è mescolare e verificare la scrittura con l’apporto attoriale, accumulare materiale e poi strutturarlo.
In conclusione, che cos’è per lei il teatro? Che cosa rappresenta?
In una visione nichilista potrebbe essere un modo per ingannare il tempo, in una edonista un modo per trarre piacere, temo però si tratti di stoicismo, malgrado la situazione culturale ed economica odierna, vivo con razionalità e serena accettazione gli eventi che scaturiscono dal mio mestiere.
Foto di Laila Pozzo e Lucia Menegazzo