di Marco Morello

Un parco di interesse naturalistico internazionale
che nasconde tesori inaspettati di flora e di fauna

Il cielo è intensamente azzurro sulle diverse tonalità di verde dell’altopiano tagliato dalla statale 77. Accanto alla striscia d’asfalto, appoggiate acrobaticamente sul pianale dei trattori o al riparo di una tenda su banchetti a bordo strada, le cassette di legno colme di prodotti ci ricordano che questa zona è famosa per due specialità agroalimentari: la patata rossa e le lenticchie.

Colfiorito, piccolo paese al confine con le Marche, meno di 400 abitanti all’ultimo censimento, vive adagiata sull’altopiano che ne prende il nome, luogo dove troviamo insediamenti umani risalenti a circa tremila anni fa, quando la zona era abitata dalla popolazione preromanica dei Plestini. Il Museo Archeologico di Colfiorito (MAC) racconta la storia di questa terra con reperti che evidenziano l’importanza di questo punto di incontro tra le popolazioni dell’interno e quelle del mare, ponte di passaggio tra l’Etruria, la Magna Grecia e la Grecia. Siamo nell’area protetta del Parco di Colfiorito, uno dei più piccoli parchi regionali umbri, istituito nel 1995 intorno a un’area già identificata dalla Comunità Europea come zona di interesse naturalistico internazionale. Nel 1976, infatti, la Convenzione di Ramsar aveva individuato nella Palude di Colfiorito una Zona di Protezione Speciale. I circa 100 ettari della palude costituiscono uno scrigno intatto di vegetazione e animali tipici delle zone paludose.

È un’area di grande interesse storico, paesaggistico, idrologico, botanico, faunistico e una tra le regioni più importanti e caratteristiche dell’Appennino Centrale. Contraddistinta dalla presenza di sette conche denominate Altipiani di Colfiorito (o Altipiani Plestini) questa era una zona di paludi e laghi, poi prosciugati o naturalmente o per intervento dell’uomo. La palude di Colfiorito, al centro di questa più ampia estensione naturale, è quello che resta del Lago di Casicchio, noto fin dall’epoca romana. Dal quindicesimo secolo in poi sono stati fatti diversi tentativi di bonifica, mai andati a buon fine. A metà del diciassettesimo secolo nella palude venne costruito un molino per la macinazione del grano. La struttura poteva sfruttare il salto tra il bacino di raccolta dell’acqua e l’inghiottitoio naturale di origina carsica presente nella palude. La casa del Mollaro che si visita oggi, restaurata dopo il terremoto del 1997, è quello che resta di quella costruzione. Appostandosi nell’osservatorio per l’avifauna situato nel mezzo dell’acqua e aspettando con pazienza e con l’opportuna attrezzatura di avvistamento, non ci si dovrà stupire nel vedere atterrare un airone cinerino o un airone rosso, così come sono di casa il germano reale, le folaghe, il mestolone, il tarabuso e in generale un’ottantina di specie, compresi il gufo reale e il gatto selvatico.

La palude è contornata da un sentiero facilmente percorribile. Il giro completo passa anche attraverso i campi che circondano la zona paludosa e dura al massimo un paio d’ore, compresa qualche sosta per scattare foto alle rare specie di uccelli che si possono incontrare tra i canneti. La nostra guida, Bibo, è abituata a terreni ben più difficili. Questo sentiero segnato e pianeggiante è fin troppo facile per le sue aspettative e quindi ogni tanto cede volentieri alla tentazione di percorrere quei tratti di sentiero che, a causa delle grandi piogge, sono stati inghiottiti dalla palude.  Come sempre capita in queste splendide escursioni umbre, la gita non può far altro che concludersi con una sosta enogastronomica. Un sacco di patate rosse, un paio di chili di lenticchie di Colfiorito e una pausa alle “casermette” dove possiamo degustare i formaggi dell’altopiano, ordinare una zuppa di legumi, assaporare dopo la lunga passeggiata il piacere ristoratore dei sapori genuini dell’Umbria più vera.