“In direzione ostinata e contraria” e favoleggiando di un sesto continente, un enorme Atlantide di rifiuti di plastica, Neri Marcorè è tornato a fare il suo ingresso al Teatro Morlacchi di Perugia e, accompagnato da due intellettuali di rispetto come Pier Paolo Pasolini e Fabrizio de Andrè, si è fermato nel capoluogo umbro per raccontarci il suo nuovo spettacolo, “Quello che non ho”
di Francesca Cecchini
“Le parole di un intellettuale devono smuovere le coscienze” con queste parole Neri Marcorè, al Teatro Morlacchi di Perugia, arriva subito dritto al punto e lascia ben intendere il valore sociale e culturale di Quello che non ho, spettacolo nell’ambito della stagione curata dal Teatro Stabile dell’Umbria che lo vede protagonista, insieme a Giua, Pietro Guarracino e Vieri Sturlini (voci e chitarre) a Perugia fino al 2 aprile. L’intellettuale di cui fa cenno è Pier Paolo Paolini, soprattutto il Pasolini autore degli Scritti Corsari (Ndr. raccolta di articoli sulla società italiana pubblicati su grandi testate negli anni Settanta) che hanno tanto inspirato il viaggio nel quotidiano, accompagnato da musiche e testi di Fabrizio De Andrè, che viene compiuto in scena e in cui le caratteristiche della società di ieri si rispecchiano in quelle dello scenario attuale.
“È uno spettacolo – ci spiega l’attore – sui temi attuali che spaziano dall’inquinamento alla coscienza critica, dal consumismo allo sfruttamento della prostituzione minorile, senza mai entrare nel dettaglio. Per dire che il mondo nel quale viviamo offre tutt’ora, come in passato, degli spunti di riflessione, degli interrogativi che possono smuovere la nostra coscienza. Poi sta a noi non girare lo sguardo dall’altra parte oppure decidere di entrare in contatto con queste problematiche”. Capire, dunque, “Se siamo dei conformisti, se ci piace adagiarci sulle nostre conquiste, di quelle della nostra società o meno”.
“Sono venuti gli zingari, non ho detto niente. Sono venuti a prendere gli ebrei non ho protestato. Poi gli omosessuali e sono stato zitto. Quando sono venuti a prendere me non c’era nessuno a protestare” parafrasando la poesia di Bertold Brecht, Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, Marcorè cerca di farci comprendere meglio: “Questo è un po’ il punto. Conoscere le situazioni, approfondire qualsiasi argomento è sempre, credo, un passaggio obbligato se si vuole, poi, avere una voce in capitolo”. Un atteggiamento di superficialità pare, purtroppo, essere sempre più presente oggi. Ad esempio, con l’avvento dei social network, strumenti importanti che offrono la possibilità di esprimere la propria opinione “Accade spesso che basti leggere i titoli per giudicare, spesso anche per condannare”. Un atteggiamento che l’attore cerca di non condividere: “Io per primo mi metto in discussione come credo sia un po’ anche il compito di questo spettacolo. Far nascere delle domande e, appunto, mettersi in discussione”.
Perché, tra tutte le canzoni di de Andrè, la scelta per il titolo è ricaduta proprio su Quello che non ho?
“È stata una mia proposta perché all’inizio Gallione, il regista, voleva chiamare lo spettacolo Rabbia dal documentario di Pasolini del 1963. Per me era poco accattivante. Quello che non ho mi sembrava potesse ben descrivere quel concetto di “avere ed essere”. Abbiamo tante cose. Abbiamo la possibilità di conoscere ciò che accade dall’altra parte del mondo, di viaggiare e spostarci nell’arco di pochissimo tempo da un posto all’altro, di fare di tutto e di più grazie all’avvento dell’informatica e della tecnologia. Tutto questo “avere” corrisponde ad un altrettanto “essere”. Se si contrappone ‘quello che ho’ e ‘quello che non ho’, poi, ognuno può metterci quello che vuole( quello che non ha o quello che vorrebbe avere). Quindi, anche se la canzone di De Andrè parla di oppressori e oppressi, concetto peraltro presente in qualche modo strisciante nello spettacolo, per me era un emblema la riflessione su essere e avere”.
In scena abbiamo una serie di quadri che si sviluppano lungo una linea temporale progressiva o discontinua?
“Lo spettacolo si sviluppa in quadri non necessariamente collegati gli uni agli altri. L’inizio è sicuramente inanellato in modo cronologico. Facciamo riferimento ad un episodio del 1995, poi si parla di De Andrè, di un concerto in cui canta una canzone che è stata scritta apposta sulla morte di Pasolini, Una storia sbagliata, durante l’esecuzione della quale De Andrè dice ‘la morte di un intellettuale che è stato trasformato in carne da macello’. C’è anche un’altra citazione di Pasolini che è ‘L’Italia, non soltanto quella del palazzo del potere che è un paese ridicolo e sinistro”, poi c’è un’invettiva contro i potenti ma, al tempo stesso, anche contro i cittadini italiani perché non sono da meno. Infatti, in questo senso, condivido il fatto che in questi anni la politica non ha dato mostra di sé al massimo ma concordo anche con il pensiero di chi crede che i politici siano sostanzialmente l’espressione del popolo che li vota”.
Dopo questa piccola divagazione, Marcorè riprende la descrizione dello spettacolo, raccontandoci come si sviluppi, in seguito, partendo dalla citazione della Rabbia per passare ad una serie di argomenti che spaziano sul disastro ambientale in Sicilia, il riciclaggio di scorie tossiche e sul fatto che siano state sotterrate nella terra dei fuochi, nelle cave. Da questi punti scatta in automatico “Don Raffaè” che è una canzone scritta su un camorrista. È una canzone che sottolinea bene l’argomento di cui stiamo parlando. Finita quella si passa ad un altro tipo di sfruttamento, quello delle persone che estraggono il coltan, un materiale con il quale vengono costruiti i nostri computer e i nostri telefonini. L’attore ci tiene a precisare che il concetto principale non sta nel cercare di fermare l’estrazione ma nel rendere consapevoli le persone del “sacrificio fisico” che sta dietro lo sviluppo della tecnologia. Una tecnologia che va senz’altro sfruttata perché fa parte della nostra vita ma di cui, forse, dovremmo cercare di limitare “Gli eccessi. A volte si vuole cambiare un telefonino per sfizio ma, magari, se riflettiamo un attimo, aspettiamo a comprarlo. Non succede niente, non ci cambia la vita e al tempo stesso può essere un piccolo gesto simbolico”. Ritornando alla domanda principale “Gli argomenti si susseguono come fossero tessere di un domino. Si va avanti poi, alla fine, si ritorna al discorso degli Scritti Corsari con un articolo, quello delle lucciole che tanti conoscono. Pasolini diceva che non esistessero più e che, essendo scomparse, anche gli uomini erano stati uccisi dalla modernità. Noi sovvertiamo questo teorema, visto che le lucciole ci sono, e diciamo che la speranza c’è sempre. Ma la speranza che le cose cambino e vadano in modo diverso dalla tendenza attuale non è un elemento che scende dal cielo. Dipende da noi. Siamo sempre noi i fautori del nostro destino e, anziché aspettare che sia il nostro vicino a fare il primo passo nobile, sarebbe meglio lo facessimo noi creando così un meccanismo virtuoso. Qualora non si riuscisse a creare, saremmo almeno a posto con la propria coscienza. Questo sarebbe già un piccolo elemento di speranza o una piccola consolazione”.
Quello che non ho liberamente ispirato all’opera di Pier Paolo Pasolini, drammaturgia e regia Giorgio Gallione, canzoni di Fabrizio De Andrè, con Neri Marcorè e con Giua, Pietro Guarracino e Vieri Sturlini voci e chitarre, arrangiamenti musicali Paolo Silvestri, collaborazione alla drammaturgia Giulio Costa, scene Guido Fiorato, luci Aldo Mantovani, una produzione Teatro dell’Archivolto.