Quando la Capitale ospitava gli alchimisti, curiosi personaggi il cui fine ultimo era quello di annullare la morte, i quartieri di Roma erano intrisi di mistero. Ad oggi, quel che resta delle loro gesta sembrerebbe riassumersi in un solo grido: cerchiamo di preservare il passato, la morte può attendere

di Daniele Pandolfi 

Facciamo un passo indietro, tra il 1655 e il 1680, alla corte del marchese Massimiliano Palombara dei Principi Rosacroce. Erudito appassionato di occultismo, esoterismo e misticismo, il marchese era famoso in città e accoglieva nella sua dimora chiunque condividesse la sua stessa passione, finanziandone gli studi. La Porta Magica in origine era uno dei quattro ingressi al suo laboratorio segreto, posizionato fronte villa, nonché l’unico ancora in piedi. Il resto del complesso, infatti, oggi non esiste più a causa dei lavori di ristrutturazione del quartiere Esquilino. Secondo la leggenda un tale Francesco Giuseppe Borri, alchimista, soggiornò nei giardini della villa alla ricerca di qualcosa che tramutasse tutto in oro, un tipo particolare di erba, per l’appunto. L’indomani fu visto scomparire attraverso la porta di Piazza Vittorio, lasciando dietro di sé dei frammenti d’oro, con alcuni simboli magici scritti su carta che potevano forse dimostrare la veridicità dell’esistenza della pietra filosofale. Le circostanze intorno alla sua presunta morte sono alquanto velleitarie. Accusato di eresia dalla Santa Inquisizione, Borri venne rinchiuso a Castel Sant’Angelo, per poi continuare ad essere ospite del marchese fino ad un secondo arresto. Poi la sua morte, nel 1695. Secondo diverse testimonianze, però, Borri non sarebbe realmente deceduto in quel periodo ma avrebbe continuato, celato al mondo e ai bigotti della Chiesa, i suoi studi. L’unico modo per restare morto sarebbe stato quello di cambiare identità: si dice allora che si reinventò e fu conosciuto come il Conte di San Germano. Da vecchi dipinti la somiglianza tra i due superava l’inverosimile… e se fosse tutto vero?