All’interno di una gabbia dorata Maria Chiara Tofone porta in scena tutte le sfumature della solitudine in uno spettacolo che rimanda allo spettatore una riflessione sulla propria condizione emotiva, accompagnandolo verso una più ampia comprensione di se stesso

di Francesca Cecchini

Tre once di lana nera, questo il titolo dello spettacolo in scena domani (13 novembre alle ore 17.30) alla Sala Cutu di Perugia. Maria Chiara Tofone, Emanuele Cordeschi Bordera e Lorenzo Carità Morelli guideranno il pubblico in un viaggio indagatore dei misteri della solitudine con tutte le sfumature più o meno sottili che questa condizione comporta. Il testo di Emanuele Principi, su regia di Giacomo Troianiello, si apre allo spettatore negli ambienti di un osservatorio astronomico. Una donna (l’astronoma), perde all’improvviso il lavoro e si ritrova ad affrontare il ‘dramma’ della separazione dal luogo che è diventato, di anno in anno, punto di riferimento di vita. Che è diventato il ‘suo’ luogo.

“L’idea – ci spiega Maria Chiara Tofone – nasce da Emanuele Principi e Giacomo Troianello con l’intento di approfondire la tematica della solitudine. Questo testo è il secondo di una trilogia che vede in Albe bianche (NdR. incentrato sul tema ‘amore-guerra’) il primo sviluppo. La terza parte è ancora in cantiere.

Il percorso dello spettacolo?

Il percorso di Tre once di lana inizia un anno fa, proprio a novembre, a Todi. Prosegue con un’ulteriore prova aperta al centro di Palmetta di Terni – luogo di residenza -, per poi continuare a girare in alcune rassegne, festival, fino ad arrivare, quest’anno, finalista al Palio poetico Ermo Colle e a ricevere la nomination “Special Off” al Roma Fringe Festival.

Una grande soddisfazione per la compagnia che non ha ancora un nome (al momento è un ‘gruppo informale’) e che ha autoprodotto lo spettacolo. Il tema portante è, dunque, la solitudine, un argomento sensibile di cui tutti abbiamo avuto almeno in un momento della nostra vita un piccolo assaggio. L’input iniziale è la perdita del lavoro dell’astronoma ma questo “E’ in realtà solo uno spunto. Nell’ottica di Emanuele e Giacomo, anche per come è stato strutturato e messo in scena lo spettacolo, non si vuole dare rilevanza alla storia ma alla condizione in sé della solitudine. La questione che si svolge all’interno dell’osservatorio è piuttosto marginale”.

Qual è la particolarità con cui affrontate sul palco il concetto di solitudine?

La questione ‘astronomica-spaziale’ ci ha permesso di focalizzarci sulla distanza. Il tema portante è la distanza nei rapporti. Poi abbiamo la ‘mobilità’. Quando ci si ritrova soli si corre il rischio di rimanere fermi. Non si riesce a muoversi. A livello scenico io sono praticamente incastrata all’interno di quattro fari, ovvero, dentro una struttura che mi costringe, fuori dalla quale non posso andare. Le luci, generalmente utilizzate per indicare una via d’uscita, diventano in scena una sorta di gabbia, di elemento costrittivo che gioca un ruolo fondamentale in una scenografia molto semplice e povera. Due persone si occupano, sul palco, delle luci e dell’audio.

Attori sul palco?

Si, soprattutto uno dei due che sarà il mio unico interlocutore ed elemento di scambio con l’esterno.

La protagonista rimane chiusa nel quadrato di luce (gabbia) per una sua scelta?

È una condizione autoindotta dagli eventi della vita: c’è chi sceglie la condizione di solitudine, chi vi si ritrova. In scena c’è il lato più oscuro della solitudine.

La drammaturgia?

Il linguaggio di Emanuele, secondo me, è poetico. È un linguaggio che nella sintesi riesce a trovare delle ‘aperture’. Io stessa ho trovato degli agganci, delle risonanze.

Prima accennava all’audio in scena…

Abbiamo fatto un grande lavoro sul suono. L’impianto sonoro, all’interno dello spettacolo, è molto importante, è il veicolo per cui passa tutto.

Qual è stata la difficoltà maggiore nell’interpretare questo ruolo?

Il lavoro sulla parola, sul significante e non sul significato. Era la prima volta per me, e da questo punto di vista è stato molto interessante perché mi ha aperto un nuovo modo di concentrarmi su cosa la parola può portare oltre il suo significato. Questo l’ostacolo più grande, anche a livello tecnico, ma che ho trovato molto stimolante. Ogni volta, sempre all’interno di una struttura data, compio un viaggio dentro me stessa ed è quasi sempre una nuova scoperta personale.

(fotografie di Pietro Ciavattini)